Enrico Bernini Carri, Presidente del CEMEC: “Ho voluto rilanciare, nell’ambito del Consiglio d’Europa, questa agenzia, facendola diventare un punto di riferimento a 360 gradi, per le catastrofi”

Il Professor Enrico Bernini Carri é il Presidente di CEMEC, Centro Europeo Medicina delle Catastrofi.
CEMEC, operando sotto l’egida del Consiglio d’Europa e dell’OMS,  persegue la missione di mitigare le conseguenze dei disastri naturali e  tecnologici attraverso la diffusione della cultura della medicina dei disastri  e la formazione degli operatori dell’emergenza. Il CEMEC ha un compito molto delicato ed è proprio con il Presidente Bernini Carri che andiamo a parlarne.

Qual’è il suo ruolo nel Cemec? Cos’è il Cemec, come nasce e di cosa si occupa?
“Il Cemec è un ente di Stato della Repubblica di San Marino, allocato lì per motivi di scambio culturale con il Consiglio d’Europa di cui San Marino fa parte insieme a moltissimi altri paesi del mondo. Quando si decise di distribuire alcune delle agenzie più importanti a membri del Consiglio d’Europa, San Marino fu scelto per questa agenzia perché in realtà qui era si era svolto un evento di altissimo livello proprio su quel tema. La sigla Cemec significa “Centro Europeo per la medicina delle catastrofi”, è parte integrante del Consiglio d’Europa e dell’accordo sui rischi maggiori di cui fanno parte 34 paesi del mondo. Non solo dell’Europa quindi, ma anche appartenenti all’ex blocco sovietico, paesi del Maghreb, Messico, Canada, ecc. E’ un ente che riunisce diverse realtà mondiali che nasce nel 1986 direttamente a San Marino e a seguito della sua nascita nasce la prima scuola di medicina delle catastrofi. Fino ad allora era stato un argomento poco trattato che riguardava soltanto le emergenze, ma non esisteva come entità nosologica indipendente. Dal 1986 la medicina delle catastrofi è diventata una realtà anche perché lo sviluppo delle diverse catastrofi che si sono poi succedute nel mondo prima di quella data e in posti come Australia, Nuova Zelanda o Afghanistan erano cose molto lontane da noi. L’avvento dei media e della comunicazione internazionale ha portato a far sì che anche ciò che succede lontanissimo da noi diventi un po’ terreno di casa nostra. Di conseguenza anche questa branca di medicina, anche per via delle migrazioni, si è estremamente sviluppata.

Nel corso degli anni, il Cemec si è perso nella fioritura di diverse altre iniziative. Sono stato chiamato a presiederlo dopo tempo lungo di latenza, il contenuto è continuato ad esistere ma si è dedicato solamente a corsi di formazione locali o nazionali. Ho voluto rilanciare, nell’ambito del Consiglio d’Europa, questa agenzia facendola diventare il punto di riferimento culturale e non solo, per quanto riguarda le catastrofi. Nel novembre del 2019 ho lanciato la proposta, sviluppata dal Cemec, di una prima scuola internazionale di maxi emergenza e disastri, denominata Medis. Questa diventerà la prima scuola internazionale esistente al mondo di carattere istituzionale, sotto l’egida del Consiglio d’Europa e dell’Oms, che sarà finanziata e strutturata con la collaborazione delle organizzazioni internazionali. Ne esistono altre, ma sono scuole private o allocate presso università che fanno queste attività a scopo di lucro o interesse personale. La novità è il fatto che noi per la prima volta abbiamo ipotizzato che una scuola si occupi della maxi emergenza a 360 gradi. Intorno a una catastrofe si sviluppano variabili di carattere economico, sociale, psicologico o di insediamento urbano, abbiamo creato una scuola che raccolga intorno all’argomento delle maxi emergenze economisti, statisti, sanitari, ingegneri, comunicatori ecc. fino a quelli si occuperanno delle nuove tecnologie da sviluppare nelle situazioni di emergenza. E’ un progetto nato a gennaio dello scorso anno con la firma dei cinque paesi fondatori, San Marino, Russia, Ucraina, Slovacchia e Malta. Abbiamo sottoscritto questo accordo internazionale, di cui Cemec è il capofila, a Paestum. Accanto a questo è arrivato come una bomba il Coronavirus, di conseguenza è la prima catastrofe di carattere mondiale. La pandemia ha battezzato in qualche modo la nascita della scuola internazionale, mettendoci di fronte all’evidenza che si stava creando un problema mondiale”.

Il suo background arriva da un ambito medico, ma anche militare…
“Il mio background viene da lontano, mi sono sempre occupato di questo argomento perchè sono infettivologo e specialista in malattie infettive. Inoltre arrivo da un’esperienza militare e ho già gestito due rischi di pandemie, l’aviaria nel 2006 e l’H1N1 del 2011. Ho affrontato come forze NATO e coordinavo il gruppo di lavoro dei medici militari delle 32 nazioni per quanto riguardava i rischi pandemici. Ho una diretta conoscenza della situazione, quando la pandemia è arrivata purtroppo avevo le idee molto chiare. Avevo capito come si sarebbe evoluta e in che modo affrontarla, chi si occupa dell’argomento sa i rischi attuali e futuri”.

La sua formazione di tipo militare cosa le dà in più nell’ambito del suo ruolo?
“Sostanzialmente due strumenti: il primo è una visione di carattere integrato dei problemi perché quando ci si muove in un’organizzazione strutturata come le forze armate non sei mai solo ad operare. Le problematiche vengono sempre affrontate in una maniera integrata, quella che per noi si chiama logistica militare è fondamentale, cioè il poter prevedere scorte, movimenti, trasporti e la parte sanitaria. Non c’è mai questa divisione a compartimenti che vediamo nella società civile in cui il problema viene affrontato sotto l’aspetto sanitario, ma non sotto l’aspetto gestionale o organizzativo. Il secondo strumento riguarda la reale aderenza al territorio, sono uno dei pochi infettivologi campali cioè di quelli che operano e osservano il territorio e l’evoluzione di queste patologie nelle comunità e non all’interno degli ospedali. Al contrario la specializzazione di malattie infettive è di carattere ospedaliero, ovvero c’è il reparto e l’infettivologo sta in ospedale. Avevo una chiara visione di quella che era la gestione del territorio perché ho sempre affrontato problematiche di carattere infettivologico nelle comunità e non negli ospedali”.