Dall’inizio dell’emergenza sanitaria, nelle aree Covid dell’Ospedale San Bortolo di Vicenza, è stato prima sperimentato e poi adottato in modo sempre più diffuso un sistema di protezione per gli operatori sanitari con un fattore di protezione 10 volte superiore ad una mascherina FFP3. «Si tratta – spiega Giovanni Pavesi, Direttore Generale dell’ULSS 8 Berica – di speciali respiratori elettroventilati ad aria purificata (l’acronimo inglese è PAPR), composti da un cappuccio ermetico collegato ad una piccola unità motorizzata agganciata alla cintura, dove è inserito anche il filtro. L’aria viene prelevata dall’ambiente, passa attraverso il filtro e quindi arriva direttamente all’interno del cappuccio, dove l’operatore riceve un’aria già filtrata e quindi può lavorare senza necessità di mascherina o facciale filtrante».
Come è nata l’idea di utilizzare queste dotazioni?
«Come molte buone idee, all’origine c’è un caso fortuito: da un paio d’anni avevamo in magazzino due tute da utilizzare nel caso di pazienti malati di Ebola. Quando è scoppiata la pandemia ci siamo ricordati di questa risorsa e abbiamo iniziato a utilizzarle. Presto abbiamo capito che questa tecnologia presentava molti vantaggi rispetto alle protezioni tradizionali, mascherine e facciali filtranti, e dunque abbiamo iniziato ad acquistarne ancora prima che altri ospedali volgessero la loro attenzione verso questa tipologia di dispositivi. Così attualmente sono circa una cinquantina le unità PAPR al San Bortolo, con 120 cappucci protettivi a corredo».
Perché questi dispositivi si sono rivelati così utili?
«Con il perdurare della pandemia è diventato progressivamente sempre più evidente come il tema dei dispositivi di protezione individuali indossati dagli operatori sanitari non sia solo una questione di sicurezza, per quanto naturalmente questo aspetto rimanga assolutamente primario. Il loro utilizzo infatti influisce in modo significativo sul comfort e sulla stanchezza di medici e infermieri, ma anche sulla qualità della relazione che si instaura con i pazienti. Le unità PAPR si sono rivelate molto utili per entrambi questi aspetti. Gli operatori infatti possono respirare liberamente all’interno del casco e questo riduce molto il loro affaticamento. Inoltre il fatto di non coprire il viso di medici e infermieri consente di instaurare una comunicazione molto più efficace con i pazienti, come è stato riconosciuto anche da questi ultimi. Per i malati gli operatori non sono più figure difficili da riconoscere, possono vederli in volto e beneficiare di un sorriso o di uno sguardo premuroso nei loro confronti».
«Vengono utilizzati nelle aree Covid di Geriatria, Pneumologia, Pronto Soccorso, Anestesia e Rianimazione e Malattie Infettive. In tutti i reparti, l’utilizzo dei PAPR rispetto ai sistemi di protezione convenzionali viene scelto in funzione del tipo di attività svolta, e in particolare nel caso in cui gli operatori debbano restare per lungo tempo a contatto con i pazienti positivi, dunque quando è più importante ridurne l’affaticamento respiratorio».
Sul fronte della sicurezza invece qual è il livello di protezione assicurato?
«Il fattore di protezione dei PAPR è fino a 10 volte superiore rispetto ad una mascherina FFP3. La conferma circa la sicurezza di questa tecnologia ci è arrivata anche dai test che abbiamo condotto in questi mesi con il nostro Laboratorio di Microbiologia: abbiamo cercato tracce di agenti patogeni nei caschi e nella condotta dell’aria, senza mai trovarne. Inoltre mentre con il facciale filtrante, per garantire una perfetta protezione, è importante fare attenzione che sia perfettamente aderente al volto e che non si sposti, con i caschi non c’è questo pericolo».
Quali sono le procedure di manutenzione?
«Naturalmente dopo ogni utilizzo i cappucci vengono completamente sanificati e riportati alle condizioni iniziali di perfetta igiene, mentre i filtri vengono sostituiti ogni 6 mesi. Oggi siamo uno degli ospedali in Italia con il maggior numero di sistemi PAPR e abbiamo condiviso con altri ospedali la nostra esperienza nell’utilizzo e nella manutenzione di questi dispositivi».
Intervista a cura di Innovabiomed