Con un test genetico é possibile scoprire la sindrome nefrosica resistente alle cure con cortisone. La terapia diverrá personalizzata e più efficace.
Il problema insorge quando il filtro dei reni non funziona più e nelle urine finisce un quantitativo di proteine imprevisto: superiore a 3,5 grammi al giorno. È questo segno, oltre allo sviluppo di edemi, all’aumento dei livelli di colesterolo nel sangue, a caratterizzare la sindrome nefrosica: più frequente nei bambini, ma non di rado diagnosticata anche negli adulti, con il rischio che evolva in un’insufficienza renale.
SINDROME NEFROSICA RESISTENTE – Scoperta quasi sempre attraverso una biopsia renale, la sindrome nefrosica è stata finora curata principalmente con i corticosteroidi, chiamati a inibire l’azione del sistema immunitario. Quando ciò non accade, però, si è di fronte a una sindrome nefrosica che viene definita resistente agli steroidi: in questo caso il trattamento farmacologico non va a buon fine e il rischio di sviluppare un’insufficienza cronica è concreto, soprattutto nei bambini: non di rado poi chiamati alla dialisi ed eventualmente al trapianto dell’organo. Scoprire in tempo la mancata risposta ai farmaci è dunque fondamentale per modulare una terapia personalizzata. Un’opportunità resa possibile in seguito a una scoperta condotta da un pool di ricercatori italiani, con l’ospedale pediatrico Meyer di Firenze a fare da capofila. Dallo studio pubblicato sul Journal of the American Society of Nephrology è emersa la possibilità di valutare i pazienti che non rispondono alla terapia attraverso un semplice test genetico, dopo aver riscontrato una causa congenita della malattia in un terzo dei pazienti affetti dalla forma che non rispondeva agli steroidi. Alla conclusione si è giunti dopo aver notato che soltanto i pazienti affetti da sindrome nefrosica “resistente” presentano alterazioni genetiche a carico dei podociti, cellule che nel glomerulo renale regolamentano il passaggio di sostanze dai capillari ai tubuli: e dunque poi verso l’esterno.
DALLA RICERCA ALLA CLINICA – La metodica consente di accelerare il percorso diagnostico e migliorare quello terapeutico. «ll test genetico s’è rivelato maggiormente predittivo rispetto alla biopsia renale», afferma Paola Romagnani, responsabile dell’unità di nefrologia dell’ospedale pediatrico toscano che nel 2006 fu la prima a scoprire l’esistenza di cellule staminali renali. La scoperta è giunta dopo aver traslato alcune conoscenze genetiche nella pratica clinica. L’analisi di oltre 46 geni, considerati responsabili dell’insorgenza della malattia,è stata effettuata mediante una metodica che permette, in meno di una giornata, di analizzare oltre novanta miliardi di paia di basi. Scoperta in tempo utile la malattia, occorrerà mettere a punto rimedi adeguati. Finora la forma resistente è stata caratterizzata da un alto tasso di recidiva, anche in età adulta.
Fonte: Fondazioneveronesi.it