LAVORANO la seta e il carbonio. Sfruttano meccanica, elettricità e byte. Ma li usano per la cura del corpo umano, dei malati e dei disabili. Sono le startup biomedicali, alta ingegneria applicata alla sanità: “Uno dei campi dell’innovazione in cui noi Italiani possiamo essere più competitivi”, secondo Marco Cantamessa, presidente di Pni Cube, associazione degli incubatori universitari che la scorsa settimana ha organizzato a Torino i primi stati generali del settore. “Abbiamo una ricerca di qualità da far valere e una filiera industriale vivace, fornitori a cui le startup possono appoggiarsi”. Assobiomedica, sigla specializzata di Confindustria, ne ha censite 287, di cui oltre la metà nate da università e altri istituti pubblici di ricerca, i cosiddetti spinoff. Negli ultimi mesi è cresciuta anche l’attenzione degli investitori. Il venture capital Principia ha appena lanciato un terzo fondo tutto dedicato al biotech, 160 milioni di euro raccolti in gran parte dall’Enpam, la cassa previdenziale dei medici. Mentre un altro veicolo specializzato partirà nei prossimi mesi su iniziativa di Alessio Beverina, già partner del venture francese Sofinnova. Segnali incoraggianti per un’industria in cui sfondare è ancora più difficile che nel digitale. Perché non tutti i ricercatori hanno le competenze manageriali necessarie a trasformare un brevetto in impresa. Perché i processi di certificazione sono lunghi e costosi. E perché, nonostante i risparmi che queste tecnologie garantirebbero, la sanità pubblica italiana, il primo naturale cliente, non parla la lingua dell’innovazione.
Il sangue scorre nella seta
“Flessibile, resistente. E biomimetica, cioè in grado di replicare i processi biologici”. Nulla è meglio della seta, sostiene il 33enne Lorenzo Sala, per riparare le vene danneggiate. I vasi compromessi da malattie cardiache o dal diabete oggi vengono sostituiti attraverso autotrapianto, pratica non utilizzabile su pazienti in condizioni critiche. Oppure con protesi sintetiche, che però possono essere rigettate e vanno sostituite dopo un anno. Per questo i fondatori di Silk Biomaterials, startup nata dalle ricerche di Antonio Alessandrino al Politecnico di Milano, hanno pensato alla seta. Brevettando una doppia lavorazione del tessuto: la parte interna è fatta di nanofibre, che permettono alle cellule di aderire, quella esterna di microfibre, che costituiscono l’impalcatura del vaso. Le prime sperimentazioni sulle cavie hanno mostrato che in pochi giorni si forma un tessuto vascolare simile a quello naturale. Ora l’impresa è alla ricerca di fondi, in Italia e all’estero: “Dobbiamo svolgere altri test di laboratorio per poi arrivare a quelli sull’uomo e ottenere la marcatura Ce”, spiega Sala, uno dei soci fondatori. “Ci vorranno circa cinque anni e due milioni e mezzo di euro”. I concorrenti, quelli che realizzano delle protesi tradizionali, sono giganti del settore come Sorin o Medtronic. Ma il costo delle soluzioni in seta, dice Sala, è competitivo. E l’obiettivo finale quello di creare con il tessuto una serie completa di prodotti, “per la rigenerazione di legamenti, nervi e qualsiasi tipo di tessuto”.
Braincontrol, i malati di Sla tornano a comunicare
“Da anni la sua famiglia non era in grado di capire se fosse cosciente”. L’ultima fase della sclerosi laterale amiotrofica si chiama “locked-in”: i pazienti non riescono neppure a muovere gli occhi e non possono più utilizzare i puntatori oculari. “Grazie al nostro dispositivo quella persona è tornata a comunicare”, racconta Pasquale Fedele, 41 anni, fondatore di Liquidweb. “Per prima cosa ha salutato la nipotina e poi ha detto che aveva mal di denti”. Il merito è di un caschetto in grado di captare le onde cerebrali e di un software in grado di interpretarle. Braincontrol sa leggere i comandi lanciati dal centro del movimento rispetto a sei direzioni: destra e sinistra, alto e basso, avanti e indietro, “come una sorta di joystick mentale”. Si può applicare al controllo di una carrozzina o degli utensili di casa. Ma Fedele e soci hanno deciso di partire dai malati di Sla, elaborando un’interfaccia che permettesse loro di dire “sì” o “no” semplicemente pensando “avanti”. Dopo aver ottenuto la certificazione europea, ora lavorano a quello americana e nel frattempo portano avanti un test su circa trenta pazienti: “Stiamo strutturando la rete di vendita. Il costo del prodotto sarà di 8mila euro, compresa l’assistenza e il training del malato, fatto a distanza da professionisti”.
Esami in farmacia, referti sulla nuvola
Sempre meno letti nei reparti. Sempre più anziani e malati cronici da controllare. Più che un’innovazione, nel prossimo futuro la telemedicina, la cura a distanza, sarà una necessità. Un mercato che nel 2016 varrà 27 miliardi di dollari, stima la società di consulenza Bcg. “Stiamo progettando una serie di dispositivi per analisi connessi a una piattaforma cloud”, racconta Alessandro Sappia, 33 anni, ingegnere informatico e cofondatore insieme al collega Enrico Manzini di Biotechware. Il loro primo prodotto è un elettrocardiografo, Cardiopad Pro, pensato per farmacie, medici di base e case di riposo. Una rete capillare che può risparmiare ai pazienti il viaggio in ospedale. L’esame viene spedito in tempo reale a un centro di refertazione dove entro 15 minuti uno specialista redige il responso. Salvato poi sulla nuvola e consultabile con una chiave d’accesso sicura dal diretto interessato o dai suoi medici. In attesa del via libera americano, Cardiopad ha ottenuto quello europeo e, grazie ai fondi di un investitore Svizzero, è in commercio dallo scorso aprile. La startup ha venduto circa una novantina di dispositivi, specie nelle aree di campagna: “Offriamo il prodotto, a noleggio, e il servizio di analisi”, spiega Sappia. Al paziente l’esame costa circa 35 euro, il farmacista trattiene un margine tra il 50 e il 70%, Biotechware tra il 15 e il 20%. “Stiamo lavorando su altri dispositivi, come un elettrocardiografo per uso domestico, e per connettere alla piattaforma anche macchinari di aziende terze, per esempio gli spirometri”. Un abbozzo di cartella clinica digitale.
Marioway, in piedi sulla carrozzina
“Una questione di terapia”. Per evitare problemi ossei o circolatori le persone affette da paraplegia, paralizzate alle gambe, dovrebbero restare per diversi minuti al giorno in posizione eretta. “Ma ancora di più una questione di dignità”, dice Lorenzo Pompei. Perché grazie a Mario Way, la carrozzina nata dall’idea dell’educatore Mario Vicentini e diventata startup innovativa a vocazione sociale, le persone disabili possono ballare e giocare a pallacanestro con i normodotati. Due ruote e una seduta che sale in altezza, fino alla posizione eretta. Un mezzo regolabile in sette punti diversi, per adattarsi al profilo dell’utente. E che viene controllato solo spostando il peso del corpo, lasciando le mani libere. “Stiamo sviluppando la terza versione, con il supporto del Politecnico di Milano e di uno studio di design”, dice Pompei, una carriera nel settore finanziario prima di diventare amministratore delegato della società. “Vogliamo completare i test entro l’estate e arrivare sul mercato a fine anno”. Dopo essere stata incubata all’interno di Working Capital, l’acceleratore di Telecom Italia, la startup sta cercando dei finanziatori: “Siamo in trattative con un soggetto privato”. Mario Way dovrebbe costare circa 18mila euro, non proprio un prezzo economico: “Abbiamo voluto creare un prodotto bello, di qualità e tutto made in Italy – spiega Pompei – una carrozzina che sia desiderata anche dai normodotati”.
Fonte: repubblica.it